Era auspicabile che l’uscita dell’ennesimo volume sulle fondazioni di origine bancaria e la loro storia potesse apportare un contributo di chiarezza e di verità sull’argomento, nuovo rispetto alla narrazione condivisa, ma ancora una volta un recente articolo di Milano Finanza prospetta una realtà totalmente non corrispondente ai fatti, e non in grado di spezzare il muro di omertà che persiste sul tema, che a tutti i costi si vuole far passare per svolto e spiegato una volta per tutte. Parimenti, l’uscita del libro di Luigi Grillo dal titolo “Le Fondazioni di origine bancaria. Una storia italiana”, asseconda la “vulgata” comunemente accettata, e rappresenta l’ennesima occasione mancata per fare veramente luce su una vicenda senz’altro tutta italiana ed importante ma che, paradossalmente, non si vuole affrontare con gli strumenti della verità, dei fatti accaduti e della trasparenza degli obiettivi originari, che furono immediatamente indirizzati verso altri scopi, diversi da quelli voluti dal legislatore.
Consapevoli che, con tutta probabilità, quanto si è in procinto di ribadire rimarrà sommerso dalle voci osannanti in favore del sistema delle fondazioni e di colui che viene insistentemente considerato come il loro “nume tutelare” e che, invece, a nostro modo di vedere, è il responsabile della situazione attuale, pur tuttavia, l’esigenza di dar comunque voce alla verità dei fatti emerge prepotentemente al di là di qualsiasi altra valutazione di opportunità. E la verità sulla vicenda delle fondazioni di origine bancaria è, in sintesi, la seguente.
Fin dalla Legge “Amato” che intendeva, secondo quanto confermato anche dal suo autore, da una parte, rafforzare e rendere competitivo il sistema bancario con la privatizzazione delle Casse di Risparmio, dall’altro separare da esse l’anima filantropica, già storicamente contemplata negli statuti costitutivi, affidando alle fondazioni, allora chiamati enti conferenti, soggetti no profit, in considerazione della crisi del sistema del welfare, il compito di sostenere le esigenze e lo sviluppo sociale dei territori nei settori in cui maggiormente si notava l’assenza dello Stato, c’è stato chi ha preferito condurre le fondazioni a divenire, invece, inutile strumento di difesa dell’italianità delle banche conferitarie, tutte poi confluite in grandi gruppi con forte presenza di un azionariato estero, nonché mezzo per assecondare le richieste della classe politica, costantemente interessata a mettere le mani sui patrimoni delle fondazioni per scopi legati ad esigenze elettorali.
Questa visione antitetica della volontà del legislatore Amato, sposata dai vertici dell’Acri e dalla gran parte delle fondazioni ad essa associate, ha prodotto, come risulta oggi in tutta evidenza, la difficoltà, se non l’impossibilità, di molte fondazioni di assolvere la missione filantropica originaria, non avendo più le risorse necessarie allo scopo, in quanto devolute per lo più nell’inseguire le banche partecipate nelle loro reiterate richieste di capitali freschi (o di investimenti in realtà finanziarie, vedasi Generali), nell’inutile tentativo di sottrarle ad un destino segnato, nonché l’assoggettamento di questi storici enti privati alle mire della politica di farle diventare un suo docile strumento finanziario, come si palesò con chiara evidenza con il tentativo di riforma della disciplina di settore proposto dall’allora ministro delle Finanze Tremonti.
Ebbene, come già abbiamo avuto modo di segnalare, l’unica voce fuori dal coro plaudente delle scelte fatte dai vertici Acri è stata quella della Fondazione Roma e del suo Presidente di allora, Prof. Avv. Emmanuele Francesco Maria Emanuele, che, già prima di assumere l’incarico, aveva pronosticato il fallimento dei faraonici progetti dei cosiddetti “banchieri romani” e che, successivamente, durante il suo mandato, ha continuato a tenere la barra dritta, perseguendo scelte precise e chiare che si sono rivelate profetiche: il rispetto del dettato dei legislatori Amato e Ciampi circa i veri compiti delle fondazioni, la difesa instancabile della peculiare natura privata della Fondazione Roma da ogni attacco proveniente da chicchessia, la separazione nei tempi dovuti ed opportuni dalla banca partecipata, avviando per primo la dismissione della partecipazione bancaria a partire dal 2003, e diversificando l’investimento del patrimonio, ricevendone risultati sempre di assoluto livello, che hanno permesso alla Fondazione Roma di rispettare e, anzi, moltiplicare la propria presenza solidale a favore del territorio, soprattutto durante l’emergenza sanitaria. Il Prof. Emanuele inoltre, per primo ed in via autonoma, in largo anticipo rispetto all’Acri e alle sue associate, senza alcun tentennamento o intento di mediazione, impugnò la riforma “Tremonti” in tutte le sedi giudiziarie, contribuendo così a far cassare la citata riforma attraverso la sentenza n.301/2003 della Corte costituzionale, ben consapevole del fatto che si trattava di un tentativo surrettizio e illegittimo di portare nella sfera pubblica le fondazioni e non aderì al successivo invito dello stesso Tremonti di partecipare alla Cassa Depositi e Prestiti, indizio non certo di presa d’atto della sconfitta subita davanti alla Corte costituzionale, come sostenuto nel recente volume di Grillo, bensì della pervicace volontà di ottenere i propri scopi attraverso una strada diversa. Parimenti, sotto la guida del Prof. Emanuele, la Fondazione Roma non partecipò ad altre operazioni finanziarie altrettanto pericolose e non compatibili con lo spirito e la lettera della legge come il “Fondo Atlante”; infine, a suggello dell’incompatibilità degli indirizzi propri con quelli assunti dall’Associazione, egli scelse di far uscire la Fondazione Roma dall’Acri nel 2010.
Grazie alla sua lungimiranza, ed al coraggio delle sue scelte, oggi la Fondazione Roma è un modello di efficienza e di solidarietà a vantaggio delle comunità di riferimento, in completa armonia con la missione antica definita dai padri fondatori e confermata dalla legge vigente, distinguendosi dalla generale difficoltà della gran parte delle fondazioni italiane, costrette a ridurre, se non in alcuni casi a cessare, la propria presenza sul territorio proprio a causa delle indicate scelte errate e miopi. A tal proposito, ricordiamo sommessamente a Luigi Grillo che la Fondazione Monte dei Paschi di Siena e la Fondazione Carige non sono gli unici due esempi che non seguirono la trasformazione voluta da Amato prima e Ciampi poi, ma semplicemente la punta dell’iceberg, al di sotto del quale ci sono tutte quelle fondazioni che hanno pervicacemente voluto tenere in vita il legame con le banche partecipate, pagando come prezzo l’incapacità di assolvere il compito di essere motore di sviluppo economico e civile per le comunità locali.
La foresta pietrificata delle banche è stata disboscata ma resta un’altra foresta fitta e impenetrabile da sconfiggere: quella delle narrazioni comode, che alimentano miti ingiustificati. Per quest’ultima, l’obiettivo è, purtroppo, ancora lontano.