Come troppo spesso accade in Italia, chi grida più forte, sembra essere colui che ha più ragione degli altri e che è portatore della verità assoluta. Così sta avvenendo con riferimento all’attribuzione della primogenitura della creazione di villaggi residenziali per malati di Alzheimer nel nostro Paese, sulla scia dell’esperimento olandese. I promotori di quello di Monza, infatti, con alcuni recenti articoli, l’ultimo dei quali del 25 marzo u.s. dal titolo “Sicuri nel villaggio”, si attribuiscono illegittimamente il merito di stare per dar vita all’unico villaggio in Italia di tal genere.
Al fine di fugare, una volta per tutte, dubbi o incertezze in proposito, e di ripristinare la verità dei fatti, la Fondazione Roma tiene a ribadire ed a sottolineare che la primogenitura per l’introduzione in Italia di questo modello alternativo di assistenza ai malati di Alzheimer, spetta esclusivamente ad essa, come dimostrato dalla cronologia, tutta documentabile, delle decisioni e degli atti conseguenti, che l’hanno portata ad avviare, anche qui prima di tutti, la costruzione effettiva del villaggio nella zona della Bufalotta a Roma, lavori che sono iniziati con l’apertura del cantiere a luglio 2016 e termineranno a dicembre 2017, con l’inaugurazione del villaggio, mentre quello di Monza deve ancora posare la prima pietra.
L’idea di realizzare un villaggio di questo tipo nasce dall’iniziativa del Presidente della Fondazione Roma, il Prof. Avv. Emmanuele F.M. Emanuele, che, così com’è stato pioniere nel dare una risposta alla scarsa attenzione verso i malati terminali, le cure palliative e l’assistenza domiciliare per le persone affette da Alzheimer e SLA, creando nel 1999 il primo Hospice dedicato a Roma, in Via Poerio, nell’ottobre 2012 si reca in visita ad Hogeway, un sobborgo di Amsterdam, dove esiste già da anni una struttura del genere, rimanendone colpito per la serenità dei malati e l’efficienza discreta dell’assistenza loro riservata, in un contesto funzionale e lontano anni luce da quello ospedaliero, e molto simile a quello familiare. Si tratta di un complesso residenziale, abitato da persone affette da demenza di grado moderato-severo, che vivono in gruppi di sei-sette in case a due piani comode ed accoglienti, ognuna nella propria stanza con i propri arredi, come se fossero a casa propria, debitamente assistiti, seppur in forma del tutto diversa da quella tradizionale. Ogni modulo abitativo, molto personalizzato, che tiene conto della diversa cultura e provenienza sociale degli abitanti, affaccia su stradine ben selciate, interrotte da piccoli giardini, che conducono ad una parte centrale, dove si aprono i negozi, il piccolo supermercato, il parrucchiere, il bar, la sala di musica e persino un teatro. Le attività della giornata possono essere scelte dagli abitanti del villaggio, a seconda dei propri interessi, e sulla base di un’offerta ampia e diversificata. Anche gli scambi con il contesto esterno sono facilitati: non solo si organizzano uscite per visite museali o naturalistiche, ma si apre anche il teatro interno al villaggio a spettacoli che attraggano persone dai dintorni. In questo modo abitanti, caregiver, visitatori, amici, volontari compongono una vera comunità aperta. Anche dal punto di vista sanitario, tutto scorre nella normalità: il medico e l’infermiere vengono chiamati da fuori quando è necessario, così come altri professionisti. Gli operatori, rigorosamente senza divisa, si confondono nell’ambiente, assumendo un doppio ruolo, di parrucchiere, di cameriere, di commesso nei negozi, di portiere, ecc.
Ebbene, subito dopo la visita citata, il Presidente, Prof. Emanuele, sottopose la proposta agli organi competenti della Fondazione, i quali con entusiasmo l’approvarono, dando avvio formalmente all’iniziativa. Dal 2012, pertanto, è partita la ricerca a Roma del terreno ove ospitare il villaggio, si è cominciato a studiare il progetto esecutivo, con la consulenza dell’architetto olandese Eloy van Hal, ideatore della struttura di Hogeweyk, ed una volta individuato ed acquisito il terreno nel quartiere della Bufalotta, il 12 dicembre 2014 è stata messa la prima pietra del villaggio, con una cerimonia alla presenza delle autorità cittadine. Soltanto nel luglio 2016, tuttavia, a causa degli innumerevoli ostacoli burocratici ed amministrativi, è stato possibile aprire il cantiere.
Il percorso per arrivare a questo punto, tuttavia, paradossalmente, vista l’ufficialità della presentazione, è stato irto di ostacoli e d’imprevisti. Per cominciare, una volta individuato il terreno, il primo scoglio ha riguardato il permesso a costruire, di competenza del Comune di Roma. Per averlo, forse anche a causa delle elezioni amministrative, è stato necessario più di un anno! Parallelamente, si è reso necessario interessare la Regione, la Conferenza dei Servizi, l’ASL competente, il Ministero per i Beni culturali, il Genio civile ed i Vigili del Fuoco per le autorizzazioni ed i pareri di rispettiva spettanza, nonché l’ACEA per l’allaccio in cantiere delle utenze di energia elettrica ed acqua. Passaggio, quest’ultimo, che si è rivelato particolarmente arduo, visto che l’ACEA ha impiegato mesi per fornire il servizio richiesto. Quando tutto sembrava pronto per procedere con l’edificazione, ecco sorgere un altro problema. La necessità di ottenere l’autorizzazione idrogeologica rilasciata dal “Consorzio di Bonifica del Tevere e dell’Agro Romano”, che prevede che tutti gli interventi edilizi devono essere proposti con un adeguato studio idraulico eseguito da ingegnere abilitato. Si trattava di dimostrare che l’intervento proposto era compatibile con i livelli di piena del Tevere attesi per i successivi 200 anni, in un luogo in cui il Tevere non si vede neppure!
Siamo di fronte ad una vicenda iconica di quanto il nostro Paese sia in ostaggio di una burocrazia invasiva e irresponsabile, e di procedure assurde, entrambe votate a paralizzare qualsiasi intrapresa e fondate su quell’ottica antica e distorta secondo la quale quando la società civile si muove, è sempre meglio diffidare, burocrazia che, però, non è ovunque paralizzante nella stessa misura, atteso che altre strutture similari a quella avviata dalla Fondazione Roma, concepite e nate successivamente ad essa, sono in corso di realizzazione a Monza ed a Varese e saranno operative, a quanto pare, nel 2018. Evidentemente, ciò che a Roma si concretizza in tre anni, in altre zone del Paese, soprattutto al nord, si realizza in un solo anno.
Alla fine del corrente anno, dunque, a Roma sorgerà il primo vero villaggio residenziale per 100 malati di Alzheimer, fedelmente ispirato a quello di Hogeway, che sta già facendo scuola per tutti coloro che vogliono affrontare la malattia in modo alternativo alle strutture convenzionali, e destinato a ridurre l’incidenza di disturbi del comportamento nelle persone che vi abitano, proprio a causa dell’ambiente privo di fonti di stress, rassicurante, accogliente ed in cui è garantita la massima libertà di movimento e d’iniziativa. La Fondazione Roma, oltre che per la costruzione, garantirà, in esclusiva, la copertura di tutti gli oneri previsti anche per il funzionamento a regime, cosicché i 100 residenti, ben di più dei 64 previsti per quello di Monza, saranno ospitati ed assistiti interamente a titolo gratuito.
La Fondazione Roma esprime sincera soddisfazione per il fatto che il suo esempio venga replicato altrove in Italia, perché questo non può che andare a vantaggio dei molti malati di Alzheimer e delle loro famiglie, ma esige, al contempo, che sia rispettata la verità dei fatti e che sia ad essa riconosciuta, d’ora in avanti, la primogenitura della rivoluzionaria iniziativa.
Villaggi Alzheimer, la primogenitura è della Fondazione Roma.
10.04.17