di Guido Talarico
Il Prof. Emmanuele F. M. Emanuele è Presidente Onorario della Fondazione Roma e Presidente della Fondazione Terzo Pilastro Internazionale. Due istituzioni da decenni impegnate in Italia e all’estero, attraverso un modello di gestione svincolato dal sistema bancario, in varie attività di mecenatismo e di sostegno alle fasce più deboli della società.
Un sostegno constante che spazia dalla sanità alla cultura, cresciuto nel tempo grazie ad una gestione finanziaria del patrimonio della fondazione che ha prodotto risultati particolarmente significativi. In un momento così delicato per il nostro Paese, impegnato ad uscire da una profonda crisi postpandemica e a utilizzare al meglio le irripetibili risorse in arrivo dalla Comunità europea, abbiamo chiesto al Prof. Emanuele di spiegarci dal suo punto di vista le azioni che l’Italia dovrebbe intraprendere per affrontare le difficoltà delle attuale fase storica.
Lei ha scritto, ormai anni fa, un saggio intitolato “Terzo pilastro. Il motore del nuovo welfare”. È ancora attuale quella sua intuizione?
In un contesto di grande difficoltà, non solo legato alla pandemia, ma che riguarda i presupposti stessi del patto sociale, che è alla base della nostra democrazia, il tema del welfare rimane uno snodo fondamentale, perché si tratta di capire come si vuole immaginare nel prossimo futuro il sistema di protezione sociale che, finora, ha garantito, nonostante tutto, una risposta soddisfacente ai diritti primari e nell’accesso alla cura della salute a tutti, tanto Uscire dalla crisi: Emanuele (Fondazione Roma), “PNRR più aiuti ai territori e alla filiera culturale” da essere invidiato un po’ in tutto il mondo. Il problema è che oggi, così com’è, il sistema non è più sostenibile, a causa della riduzione dei trasferimenti pubblici, della scarsa efficienza nella distribuzione delle risorse, delle ben note fragilità che ci portiamo dietro da decenni, problema che, in concreto, non si è voluto mai affrontare. È un tema che mi è stato sempre a cuore, e su cui ho riflettuto a lungo, e da questa riflessione è scaturito, già molti anni fa, il libro da Lei citato, nel quale, attraverso un’analisi teorica e finanziaria, ho individuato nella “cittadinanza attiva”, nella capacità di autorganizzarsi e di intervenire nella gestione dei beni comuni della società civile più generosa e qualificata che, appunto, chiamo “terzo pilastro”, l’unica speranza di vero rinnovamento e di rinascita del sistema di protezione sociale, in grado di supplire all’inefficienza del mercato da un lato e dello statalismo dall’altro. In pratica, vuol dire che se si vuole dare una prospettiva di lungo termine al nostro sistema di welfare, bisogna immettere energie, idee, disponibilità e competenze nuove, che possono ritrovarsi all’interno del mondo del non profit, un patrimonio ricco e multiforme, che ritengo possa dare ancora oggi un contributo imprescindibile nell’ideare e realizzare iniziative in grado di rispondere alle necessità della collettività, senza ulteriori oneri per lo Stato, se non quello di legittimare, accompagnare, favorire, anche in senso normativo e regolamentare, l’impegno di chi vuole farsi carico dei beni comuni, senza ambizioni risolutive e sempre in via sussidiaria, nel rispetto del quadro normativo di riferimento dell’art.118 della Costituzione. Perché accada tutto questo, però occorre che la politica lasci cadere la diffidenza ed il pregiudizio ideologico verso i corpi intermedi, che è una costante della nostra classe dirigente fin dalla legge Crispi del 1890.
Com’è cambiato il ruolo delle Fondazioni?
In verità, il ruolo delle Fondazioni, non è mai cambiato. A partire dalla legge “Amato” del 1990 e poi con la legge “Ciampi” del 1999, le Fondazioni, persone giuridiche private senza fine di lucro, dotate di piena autonomia statutaria e gestionale, come recita l’art.2 del d.lgs. 153/99, “perseguono esclusivamente scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico, secondo quanto previsto dai rispettivi statuti”. Ed è stato così fin dalle origini delle Casse di Risparmio, allorché una parte dei proventi dell’attività creditizia veniva riversata sul territorio sotto forma di beneficenza. Piuttosto, bisogna dire che, in virtù di comportamenti incauti da parte del vertice del mondo associativo delle Fondazioni, oggi manifestamente evidenziati dai fatti, detto ruolo è stato volutamente snaturato e orientato in altre direzioni, e cioè verso il protagonismo negli assetti azionari delle banche (basta leggere i giornali di questi ultimi giorni con riguardo alle vicende Unicredit, Generali, Intesa, BPM), verso il mantenimento del legame con le banche conferitarie, che hanno trascinato nella crisi le fondazioni azioniste, privandole dei mezzi necessari per intervenire sul territorio, nell’asservimento alle influenze della politica, dirette e o indirette che fossero, verso l’adesione ad operazioni finanziarie di dubbia validità, anche in termini di proventi, ma di sicura estraneità al ruolo ritagliato per questi enti al legislatore. Mi riferisco, ad esempio, oltre che alla più che decennale politica di asservimento alla volontà delle banche, all’adesione alla Cassa Depositi e Prestiti, che ha, peraltro, contribuito a confondere nuovamente le idee circa la natura privata delle Fondazioni, attirandole verso la sfera pubblica, ed al Fondo Atlante, che, nonostante il dispiego di notevoli risorse finanziarie, doveva salvare alcune banche in difficoltà e che, invece, ha clamorosamente fallito nell’intento. Bisogna che si capisca, una volta per tutte, che il compito delle Fondazioni è esclusivamente quello indicato dal legislatore, e cioè sostenere, in via sussidiaria, le esigenze delle comunità locali con iniziative concrete di solidarietà nei settori del welfare più in difficoltà, diversificare l’investimento del patrimonio, ed emanciparsi dalle influenze pericolose della politica. Tutto questo, in pratica, non è difficile, perché basta seguire il modello della Fondazione Roma che, nel corso della mia presidenza, ho fortemente orientato verso queste scelte, che oggi si rivelano profetiche, e, come dice qualcuno, le uniche corrette ed opportune, in armonia col dettato normativo.
E il sistema bancario, a suo giudizio, che evoluzioni ha avuto?
Fin dagli anni ’80 del secolo scorso ho avuto modo di esprimere le mie perplessità sul processo aggregativo che stava cominciando ad interessare le principali banche del Paese, manifestando dubbi espliciti soprattutto nei confronti della fusione tra l’allora Cassa di Risparmio di Roma, banca in buona salute, in crescita e dotata di un rilevante patrimonio immobiliare di pregio, con il Banco di Santo Spirito, che invece aveva grandi problemi di insolvenze e di crediti inesigibili. Successivamente, come Presidente dell’Ente Cassa di Risparmio di Roma, ho espresso la mia valutazione negativa al lungo percorso aggregativo intrapreso inseguendo il sogno di una grande banca nazionale, Capitalia, che, come da me previsto, fu ceduta nel 2007 ad Unicredit prima ancora della conclusione negativa dell’esperimento. Il processo di concentrazione, se, da un lato, nasceva dall’esigenza di far fronte, con dimensioni più significative a livello patrimoniale, alla maggiore competitività internazionale voluta dalla normativa europea, d’altro canto, non si può sottacere, nel caso della Cassa di Risparmio di Roma, il fatto che subì una svalutazione del patrimonio di 1.242 miliardi di lire a causa delle notevolissime perdite registrate nell’esercizio 1997 dalla banca partecipata, più una seconda svalutazione l’anno successivo di più di 1000 miliardi di lire proprio in conseguenza della liquidazione della Cassa di Risparmio di Roma Holding. In più, detto processo ebbe come effetto quello di far sparire marchi storici, come la Cassa di Risparmio di Roma, appunto, il Banco di Santo Spirito, poi la Banca di Roma, e questo solo per riferirsi alle vicende che conosco più da vicino, che fino a quel momento avevano costituito un presidio creditizio nel Centro e nel Sud del Paese, con l’ulteriore risultato che il Meridione da allora non può più contare sul loro supporto a sostegno dell’economia locale. A distanza di alcuni decenni, si può dire che oggi il nostro sistema bancario è ancora fortunatamente abbastanza solido, in linea con i parametri europei, anche se il prezzo è stato decisamente alto, e sebbene stenti a fare da volano per dare slancio all’economia del Paese, per eccesso di prudenza negli impieghi.
Nei prossimi due anni arriveranno in Italia fondi europei di rilievo straordinario. Condivide le priorità che ha fissato l’Europa?
A dire il vero, non mi sento di condividere a pieno le priorità fissate in sede europea e recepite nel PNRR. A parte il discorso della sostenibilità ambientale, che concordo debba avere una rilevanza importante nella visione a lungo termine del futuro del nostro pianeta, personalmente avrei dato più spazio e risorse alla tutela del territorio, che in Italia è uno dei pochi asset che ci sono rimasti, ed alla cultura intesa in senso ampio, comprendente l’intera filiera dell’industria culturale, poiché anch’essa rappresenta un’autentica eccellenza dell’Italia, sulla quale valeva forse la pena di puntare di più.
Con il “Villaggio Emanuele” la Fondazione Roma ha indicato un modello per la cura e l’assistenza dei malati di Alzheimer. Un’esperienza che funziona bene, ma che ancora in Italia è rimasta unica. Perché?
A parte pochi tentativi di emulazione mal riusciti a Monza ed in altre parti d’Italia, in cui, oltre a non ispirarsi al modello olandese da me visitato fin dal 2002, e che ho voluto fortemente replicare qui a Roma, l’accoglienza per i malati è a pagamento, mentre nel Villaggio che porta il mio nome è interamente e stabilmente gratuita, ancora oggi, a distanza di diversi anni dall’avvio di questo meraviglioso e pionieristico progetto, mi chiedo come mai esso non sia stato replicato in modo integrale nel resto del Paese, vista la sua positività nell’intervenire contro questa patologia devastante. L’idea di dar vita a Roma ad un villaggio residenziale interamente pensato e dedicato ai malati di Alzheimer, che riproducesse la positiva esperienza olandese del villaggio denominato “Hogeweyk”, abitato, serenamente, da persone affette da demenza, che vivono in gruppi di sei-sette in case a due piani comode ed accoglienti, ognuna nella propria stanza con i propri arredi, come se fossero a casa propria, è diventata finalmente, grazie alla mia visione, una realtà, che riproduce in modo del tutto analogo il modello olandese, come pubblicamente dichiarato dal fondatore della struttura olandese, Eloy van Hal, che ha anche seguito i lavori del complesso romano. Il Villaggio sorge nella zona della Bufalotta, su un terreno di proprietà della stessa Fondazione, ed ospita, in maniera completamente gratuita, persone affette da Alzheimer in forma lieve e moderata. Sebbene ci siano voluti ben sei anni per realizzare questa pionieristica iniziativa, dal giugno 2018 il Villaggio ospita sia residenti, sia persone in regime semiresidenziale attraverso il Centro diurno, secondo un progetto innovativo che mira a costruire un luogo di residenza, dove poter riscoprire e sperimentare sensazioni, attenzioni, stimoli che gli ospiti avevano nelle proprie case di origine, con l’ambizione di coniugare la libertà di movimento e di accesso ai servizi offerti dal villaggio con l’assistenza e la cura che dette persone comunque richiedono. L’obiettivo è stato la realizzazione di un ambiente idoneo a migliorare la qualità della vita delle persone colpite da Alzheimer, rispondendo alla complessità dei bisogni fisici, psichici, sociali e spirituali della persona. All’interno del Villaggio sono presenti alcuni servizi quali ristorante, bar, salone di bellezza, che sono a disposizione dei residenti, ma aperti anche al territorio, allo scopo di costruire un collegamento con l’ambiente esterno, promuovendo la socializzazione e l’inclusione. Per i residenti sono a disposizione un minimarket, numerosi club di animazione, dotati di apposite sale per l’attività motoria, per la musica, l’arte, la lettura e per lavori di artigianato, nonché un ambiente per eventi e spettacoli. Sono presenti spazi verdi con panchine, e percorsi privi di barriere architettoniche. Compatibilmente con le proprie condizioni, ognuno è libero di muoversi all’interno del Villaggio ed ha la possibilità di uscirne accompagnato da un operatore o da un familiare. L’assistenza agli ospiti è garantita 24 ore su 24 da un nutrito gruppo di operatori, composto da psicologi, infermieri, operatori sociosanitari, terapisti occupazionali, educatori, tutti attentamente selezionati e preparati a questa esperienza nuova e ad un approccio diverso alla malattia. La Fondazione Roma ha la gestione diretta del Villaggio, di cui è anche proprietaria, e si è assunta in esclusiva tutti gli oneri connessi al suo regolare funzionamento. Le risorse importanti per mantenere in piedi una struttura così complessa sono garantite dai fondi per le attività istituzionali che, a differenza delle altre Fondazioni, non sono mai mancate, grazie alle scelte da me promosse durante la mia Presidenza. E’ un mio sogno che è diventato realtà.
Continuate a finanziare in modo importante strutture sanitarie di grande prestigio come il Policlinico Gemelli di Roma. Il Cemad è l’ultima opera realizzata. Quali sono le linee ispiratrici della vostra azione?
La partnership con il Policlinico “A. Gemelli”, da me avviata fin dal 2016 allorché, ero Presidente della Fondazione Roma, in forza della testimonianza costante che esso offre in termini di eccellenza nelle terapie, nella diagnostica e nella ricerca, non cessa di produrre frutti straordinari e continuerà a produrne nel futuro anche di più strabilianti, perché sono fortemente convinto che occorra premiare le realtà che brillano nei propri campi, secondo criteri di professionalità, competenza, serietà, dedizione alla persona ed al malato, che deve restare sempre al centro. Il CEMAD, presso il quale è stata di recente inaugurata la prima sala ibrida in Italia dedicata al trattamento endoscopico delle patologie gastroenterologiche, grazie al contributo della Fondazione Roma, da me esplicitamente voluto, rappresenta, perciò, un’ulteriore tappa di un articolato e fecondo percorso di collaborazione destinato a protrarsi nel tempo. Grazie alla Fondazione Roma, il CEMAD ha oggi le carte in regola per erogare prestazioni diagnostiche e di cura innovative e ad alta complessità, e per consolidare quella reputazione ormai di livello assoluto e internazionale, decretata dal riconoscimento del 3° posto nel mondo per l’anno in corso 2021 come centro di eccellenza per le malattie dell’apparato digerente attribuito dalla rivista americana “Newsweek”. Sono, dunque, particolarmente soddisfatto degli esiti di questa collaborazione, perché ciò che avevo ipotizzato già diversi anni fa, ha preso felicemente corpo, così come lo sono ogniqualvolta sono riuscito a realizzare qualche importante intervento con altre realtà di eccellenza in campo sanitario, come, ad esempio, lo Spallanzani. La Fondazione Roma, da sempre particolarmente attenta a corrispondere alle esigenze del territorio di riferimento o a quelle dell’intero Paese nel campo della salute e della ricerca scientifica nel settore bio-medico, per mia esplicita indicazione risalente ormai a molti anni fa, non poteva rimanere inerte di fronte alla grave emergenza sanitaria che si è abbattuta anche sul nostro Paese, e per questo, in armonia coi criteri sopra citati, ha inteso premiare l’istituzione romana di eccellenza nel campo delle malattie infettive, che tra le prime in Europa è riuscita ad isolare il nuovo virus e che, in modo encomiabile, si sta prodigando per fronteggiare l’epidemia in atto. Il Gemelli e lo Spallanzani, ovviamente, sono solo due esempi, poiché, per fortuna, anche qui a Roma e nella Regione Lazio le eccellenze in campo sanitario non mancano.
Coronavirus è sconfitto; l’emergenza sanitaria è finita o rimane ancora molto da fare?
Premesso che il virus, a mio parere, non è stato ancora sconfitto, ma solo ridimensionato nelle sue capacità di contagio e nella sua forza letale, e non è escluso, purtroppo, che possa ancora riservarci qualche spiacevole sorpresa, ho diverse perplessità, a dire il vero, su come è stata gestita l’intera emergenza sanitaria. Sull’esigenza di tutelare la salute pubblica come priorità assoluta si poteva fare di più, così come anche con riguardo al discorso dei ristori economici, arrivati a macchia di leopardo e con molto ritardo, che in molti casi non hanno raggiunto affatto i destinatari, mettendo in seria difficoltà famiglie e piccole imprese e artigiani, nonché tutto il comparto legato al turismo ed all’accoglienza.
Lei, che si trattasse di sanità o di iniziative culturali, ha sempre lamentato una forte insofferenza nei confronti della burocrazia, non fosse altro perché questa ha rallentato molte vostre iniziative. Come si può combatterla?
Non si tratta di un pregiudizio ideologico, ma semplicemente di un dato basato su esperienze concrete. Ogni qual volta mi è capitato di dover confrontarmi col soggetto pubblico per una qualsiasi proposta, in uno qualsiasi dei settori di operatività, che la Fondazione Roma volesse realizzare, mi sono scontrato con la burocrazia che produce solo carte e ostacoli alla libera iniziativa di un soggetto non profit che, per di più, non ha mai chiesto denaro allo Stato o agli enti locali territoriali. Le faccio gli esempi più recenti che mi è capitato di vivere direttamente, partendo da quello del citato Villaggio residenziale per malati di Alzheimer. Ebbene, una volta acquisito il terreno, l’impresa è stata portata a termine in sei anni, una durata su cui, però, ha inciso pesantemente il “fattore burocrazia”, nel senso che, sulla carta, sarebbero bastati due anni, mentre ne sono serviti il triplo, poiché è stato necessario assorbire gli effetti della complessa e irrazionale, talvolta fantasiosa e vessatoria, iper regolamentazione italiana. Per dare un’idea, sono state necessarie in tutto 45 autorizzazioni burocratico-amministrative, e al termine, il Consorzio Bonifica Tevere ed Agro Romano ha chiesto agli autori del progetto di produrre una certificazione che attestasse che il Tevere non sarebbe esondato nei successivi duecento anni, investendo con le sue acque l’intero Villaggio Alzheimer. Peccato che il Tevere, dall’area del Villaggio, che sta su una collina, non sia neppure visibile. È dovuta intervenire l’Avvocatura del Comune di Roma per sancire che la richiesta del Consorzio Bonifica Tevere ed Agro Romano si intendeva rivolta soltanto agli insediamenti nelle immediate vicinanze del fiume. Anche in campo culturale ho incontrato analoghe difficoltà. Dopo aver dato vita al Museo nel 1999 e dopo aver promosso tra il 1999 e il 2015 l’acquisizione e la sistemazione organica delle opere d’arte della Collezione Permanente della Fondazione Roma, che spaziano dal ‘400 fino ad oggi, presso Palazzo Sciarra, ho avanzato richiesta nel 2015 alle autorità competenti per l’adeguamento strutturale finalizzato all’apertura di nuovi spazi per la fruizione gratuita ad anziani e giovani. Ebbene, nonostante l’approvazione del piano di recupero da parte dell’Assemblea capitolina, intervenuta dopo ben cinque anni, nella seduta del 16 dicembre 2020, a tutt’oggi siamo, però, ancora in attesa di avere i permessi necessari per avviare i lavori e rendere operativa questa mia iniziativa. Combattere un apparato amministrativo così radicato e diffuso, non è certo semplice. Ritengo, comunque, che bisognerebbe partire da un cambio culturale di impostazione di fondo, cioè dall’applicazione generalizzata del concetto di autocertificazione e del principio secondo cui è lecito ciò che non è espressamente vietato dalla legge, ampliando, al contempo, i controlli e le relative sanzioni. Sarebbe opportuno cioè, rovesciare l’ottica secondo la quale è sempre l’utente a dover produrre documentazione atta a provare un suo status, quando, invece, la PA ha già quasi sempre i dati necessari e sufficienti per verificare quanto dichiarato dal cittadino. Operativamente, poi, partirei dalla riduzione e semplificazione degli adempimenti burocratici per i cittadini e per le imprese, e dall’eliminazione dei troppi centri decisionali, così da sfoltire il più possibile le occasioni di inefficienza e di lentezza procedurali. È noto che le inefficienze e la scarsa qualità dei servizi erogati dalla PA impattano sulla crescita del nostro Paese con una perdita di oltre 70 miliardi di PIL, per cui essa è un ostacolo, più che un sostegno alla crescita del Paese, e concorre anche a far fuggire investimenti dall’estero nelle nostre imprese, rendendole meno competitive.
In una società secolarizzata come la nostra, quanto è ancora importante la solidarietà sociale?
Sebbene vi sia oggi una consapevolezza molto confusa e superficiale di questo, ritengo che oggi più che mai il sentimento di solidarietà verso chi è in difficoltà debba prevalere su ogni altro, e debba tradursi nella disponibilità a fare qualcosa di concreto. Per quanto mi riguarda, si tratta di uno slancio che mi accompagna fin dall’adolescenza e che ho potuto mettere a frutto da quando divenni Presidente della Fondazione Roma, allorché ho potuto avviare un percorso che mi ha consentito negli anni di restituire ai meno fortunati una parte del molto che ho ricevuto nella vita. E da lì è partito il mio instancabile impegno nel realizzare progetti, anche assai impegnativi, che potessero rispondere, in qualche modo, alle esigenze delle persone malate, degli emarginati, dei giovani, ma anche di coloro che si sono trovati a scivolare all’improvviso in una condizione di disagio economico per la perdita del lavoro, per calamità naturali, per una sopravvenuta disabilità, ecc. Oggi posso serenamente dire che la mia determinazione in tale direzione è cresciuta, arrivando a far sentire questa mia sensibilità alle popolazioni del Sud Italia, dell’intero bacino del Mediterraneo, del Medio Oriente attraverso la Fondazione Terzo Pilastro Internazionale, di cui sono Presidente, e che costituisce un altro modello di efficienza e di operosità nella solidarietà, come accaduto in passato quando ero Presidente in Fondazione Roma, sebbene con ambiti territoriali differenti, esempi che dovrebbero essere diffusamente emulati e replicati, per non far mancare la vicinanza e un sostegno a coloro che rimangono indietro senza averne responsabilità.